Diario de Andalucía y Marruecos (4/4)

Ho capito dove vuoi arrivare.
Vuoi sbalzarmi via dalle tue forme sinuose, portarmi via dal tuo insieme di palazzi, fontane, giardini, muri ornati, archi arabi. Vuoi proprio vedermi stravolgere la mia vista, facendola mutare in qualcosa di più appetibile e divertente.
Vuoi vedermi soffrire?
Credo che il tuo intento in effetti sia quello di farmi uscir fuori la linfa vitale. Come dici? Il sangue! Vuoi tirarmi fuori l’essenza della vita… per farci cosa? Per ricoprirti del tuo colore? Ah già, è vero! Alhambra viene dall’arabo al-Ḥamrā che vuol dire “la Rossa”.
Adesso è tutto chiaro!
Te e la tua maledizione! Vuoi vedermi soffrire per farmi diventare del tuo stesso colore; e la cosa più imbarazzante da ammettere è che io, poi, mi lascerò trascinare via il sangue da te, perché possa essere alla tua altezza.
All’altezza di quelle colonne di marmo bianco di Almería.
All’altezza di quel capitello cubico ricoperto interamente di iscrizioni, intarsiato come se fosse stato estratto dalla pietra direttamente così. Scritto da Allah, nelle profondità dove la pressione è elevatissima.

Fontane con leoni. Milioni di significati possibili, ma uno soltanto quello vero: le tribù di Israele. E poi più vera ancora c’è la descrizione della fontana sulla fontana stessa:

A tal trasparente vascone, perla intarsiata,
per gli orli da perle decorati,
va tra le margherite l’argento,
fluido, anch’esso bianco e puro
tanto è duro com’è in apparenza fluente
che è difficile sapere quale di essi fluisca veramente

C’è qualcosa che mi tiene le gambe ferme al centro del Patio de los Leones. Credo che si tratti di quelle parole in arabo che sono recitate direttamente dalla pietra che le ha viste nascere. Si girano e rigirano convulsamente. Se restassero ferme magari sarebbero anche comprensibili a me che di arabo non so nulla (o meglio, qualcosa riesco a riconoscere, ma lungi dal comprendere). Ma la loro forza sta proprio nel contorcersi e nel far vedere a tutti quanti la forma che loro stesse preferiscono; in barba a chi ha voglia di capirle.
Chi parla arabo ha proprio quel qualcosa in più nel cervello; ha la capacità di stare al passo con le evoluzioni delle lettere. Va così veloce che, quelle che per noi europei sembrano meraviglie pittoriche arzigogolate, per loro hanno un significato linguistico ben specificato e definito.

Alhambra – Patio de los Leones

Proprio come noi osservando un muro dentro all’Alhambra, rimaniamo estasiati per la potenza espressiva, mi domando come potrebbe rimanerci un arabo, entrando in quella stanza, davanti a quel muro.
Non ne ho visto neanche uno. Di arabo intendo.
Ho osservato bene, ma non mi pare di averne visti. Che avessero paura di rimanere shockati da tutto quel vedere, godere e (beati loro) leggere e comprendere?
Mi piace pensare che fosse effettivamente questo il motivo per il quale non ne ho visto neanche uno.

Ma insomma, com’è possibile che i muri parlino?
E sono anche particolarmente prolissi! I loro rilievi sono come delle urla all’interno di una stanza. Onde sonore che rimbalzano da un lato all’altro della stanza e incontrando complesse forme geometriche si scindono in altre onde che si dipartono dagli spigoli delle iscrizioni e disegni generando così un vociferare che nulla ha da invidiare alle più esuberanti amiche intime che hanno da aggiornarsi su parecchie vicende accadute loro nel corso degli anni.

Alhambra

Il loro vociferare è tutto poetico. E’ colorato e brillante. E’ incomprensibile tuttavia.
Ma a un’attenta analisi acustica, dopo aver abituato l’orecchio a quel tipo di timbro di voce, a quel tono, si inizia a capire qualcosa. In effetti il linguaggio parlato è universale. Comprensibile anche dai più piccoli (se solo riescono a guardarlo con un’attenzione minima).

Mai visti tappeti fatti di pietra e appiccicati al muro. Finché uno non li tocca, non si rende neanche conto di come possano essere duri e ruvidi al tatto. Non ci si rende conto di questo perché tutto possono sembrare, ma di certo non di essere fatti di pietra.

La sensazione che si prova stando all’interno di una di quelle stanze è difficile da riportare con parole. Scorrere di acqua. Solido contro morbido. Comprensione di suoni e restituzione di melodie. Calma e movimento. Tolleranza e intolleranza (ai colori). Geometrie complesse contro forme semplici. Razionalità architettonica contro irrazionalità delle lavorazioni.

Mi sposto verso un altro piccolo luogo chiuso, che sembra un anfratto e mi fermo in silenzio. Le voci delle altre decine di visitatori non penetrano affatto la mia coscienza in questo momento, dato che è impegnata a farsi una doccia. Occhi aperti che guardano l’insieme. Poi come l’obiettivo di una macchina fotografica, metto a fuoco su un piccolo soggetto. Prima su un particolare, poi su una panoramica dell’insieme di tutti questi particolari. Mi accorgo che qualcosa mi sta colando addosso. Non capisco mica cosa possa essere… tutto concentrato come succo di pomodoro (se lo usi un po’ per preparare il sugo della pasta, c’è chi dice che viene più buono) guardo e osservo ma non mi accorgo che vengo investito da una melma profumata d’oro che assomiglia molto a miele.
Proviene dalle muqarnas, quelle decorazioni tipiche dell’architettura islamica che ricordano un favo stalattitico. E’ da lì che cola questo saporito e prelibato nettare.
Avvolge la mia anima e mi porta e trasporta verso un altro matrimonio con l’arte.

Alhambra

Innamorarsi all’interno dell’Alhambra è una costante.
Avrò perso la ragione più volte per poi ritrovarla attaccata ai soffitti, o sui gradini di una scalinata (quella nel Palacio de Carlos V).
Poi l’ho persa di nuovo, perché il cielo si è messo a pensare, a riflettere. Ma quel birichino ha messo in moto così tanto i suoi pensieri che si sono impressi contro i muri di quella scalinata, dipingendola con colori brillanti per lo più blu.

I marmi sono bianchi e le colonne del corrimano sembrano dei pezzi di domino messi uno di fronte all’altro come a scandire il tempo con un metronomo. Ma questi pezzi non cadranno l’uno sull’altro come piace ai bambini (e, lo ammetto, anche a me!) perché c’è quella striscia di marmo che li tiene incollati, saldi ad ogni gradino.

Scalinata del Palacio de Carlos V

Mi pare di sentire quasi una musica, mentre salgo sopra alla scalinata; sono i miei passi oppure è l’alternarsi di luci e ombre prodotte dal connubio tra cielo e colonnine?
La plastica è un prodotto poco nobile, ma mi va di prenderla in prestito per modellarci quei gradini che mi portano più in alto, facendomi apprezzare le simmetrie del palazzo di Carlos V.

Verrei volentieri con te, fatta di plastica, a girare attorno al palazzo, mano nella mano, mentre fai finta che il tempo non scorre. Vediamo che succede se a prenderti la mano sei tu e non sono io. Corri sulle scale, lasciati pervadere dalla luce e resta silenziosa quando senti che qualcuno ti chiama. Fai finta di niente e non lasciarti persuadere da quella voce che ti chiama: adesso ci sono io. E c’è la Spagna. Corri, continua a correre insieme a me attorno al palazzo. Ma no, aspetta ora siamo al piano superiore! E anche lì possiamo continuare a corre e a prenderci per mano. Non voglio lasciarla la tua mano, anche se non me la ricordo come è fatta. Ricordo il calore però. Il calore di quell’abbraccio. E con quell’esperienza posso inferire l’esperienza di una stretta di mano. Sempre la tua. E sempre nella mia. Your hands in mine. Più giriamo forte e più sembra di stare in una lanterna magica. Con i disegni che sembrano quelli di Tonight, tonight. Eppure è giorno e non mi capacito di questo cambio repentino di scena. Eppure la luce la vedo ed è giorno lo stesso. Eppure io sono solo. Ma c’è la tua mano stretta alla mia. E cosa significa?

Non serve tanto domandarsi il perché dei minuti di silenzio. Non serve neanche tanto brindare nei momenti buoni con l’assenzio. Preferisco il sapore buono della rabbia mattutina quando cerco di svegliarmi ed invece voglio stare attaccato a quel sogno maledetto che mi tiene legato al letto.

E’ per colpa di tutte quelle cose che ho visto, di cui ho intriso il cervello, che non posso fare senza di te, ricordo di calde emozioni dentro a palazzi dorati!

Giochi d’acqua nei giardini di Generalife

Meno male che condivisione è il contrario di unione; se uno leggesse “unione” su qualche giornale, a prima vista preferirebbe quel termine a “divisione”. E invece, pensa un po’ che vivo meglio nella divisione! Perché preferisco proprio vedere una cosa a metà per regalarne l’altra all’altro. Anche il complesso dell’Alhambra fa la stessa cosa: divide e non unisce. Spartisce le acque tra l’architettura della pietra e quella vegetale.
Vuole condividere lo stesso terreno e lo fa in maniera brillante, quando si trasforma nel giardino del sovrintendente. Mente chi pensa all’unione come a una cosa buona. Meglio dividere e regalare, le esperienze. Meglio dividere e privarsi per far mangiare la necessità di conoscenza di un altro. Meglio dividere insieme.

Generalife e Alhambra lo sanno.

Sono così differenti ma c’è qualcosa che li rende ancora simili. C’è qualcosa che condividono anche loro! Allora non sono così sciocchi, come spesso lo siamo noi umani… e pensare che proprio da noi umani vengono entrambi!
Non si fanno problemi a regalarsi vicendevolmente. Sono talmente intimi nella loro divisione insieme che si scambiano addirittura i propri fluidi vitali!
Quello che per l’Alhambra è una fonte di calma e rumore zen, per i giardini di Generalife è il prodotto di un’emozione continua e persistente.

Nell’aria zampilla quella linfa vitale che pretende e grida giustizia. E sia giustizia! Mi faccio io stesso portavoce del vostro verbo. Ci ho fatto kilometri per ascoltarvi, e adesso parlo. Mi metto su una scatola di frutta rigirata all’angolo di un parco e urlo. Che tanto non tutti sentono, ché non tutti hanno orecchie. Sì, appendono orecchini su prolungamenti di pelle senza nervi, ma non sentono proprio nulla, sono servi!

Riprendo coscienza e controvoglia riapro gli occhi.

Non c’è più l’Alhambra. Non c’è più Granada. Non c’è più la Spagna. E’ scomparsa l’Europa. Non c’è più nessun continente. E’ rimasta una biglia azzurra che ruota in maniera forsennata nello spazio buio. Eppure brilla anche se non c’è il sole!

Mi allontano ancora un po’ chiedendomi come faccio a respirare, e mentre penso alla risposta, guardo di nuovo quella sfera e la vedo immersa in un liquido senza colore. Mi volto e volo ancora più lontano! Temo di aver capito che succede… c’è un corpo!

Sei tu! Ti avevo perso qualche ricordo fa. Senza cancellarti dalla memoria! Però non ti ricordavo… mi lasci un po’ della tua ispirazione? Cosa? Devo soltanto respirare?

Poi scompare.

Con un amico

“Non pensi che sia stupido?”
“Stupido cosa?”
“Essere soltanto di passaggio: è ingiusto.”
“La vita… e perché dovrebbe esserlo?”
“Siamo schiavi. Solo apparentemente padroni del nostro corpo. Ma tu pensi di essere padrone della perfezione nella duplicazione?”
“Duplicazione… cosa intendi dire?”
“La morte e la nascita di nuove cellule. Ad ogni duplicazione può capitare più o meno casualmente che il DNA si rovini, e questo meccanismo si porta dietro la somma di tutti i precedenti errori di duplicazione.”
“Si procede verso la morte…”
“…per colpa di un irreversibile e continuo sbagliare. E’ questo che trovo stupido! Più questo meccanismo di replicazione è inefficiente e più siamo schiavi.”
“Va bene, ma questo fa parte della vita! Secondo il tuo ragionamento allora non si potrebbe mai essere completamente liberi: sempre vincolati in un corpo.”
“Finché restiamo vincolati in un corpo, saremo costretti ad invecchiare. E’ la mente, lo spirito, il mezzo più efficace per ridere a questo ridicolo e patetico modo di sbagliare. E’ facile per te imparare a separare il corpo dallo spirito? Ci hai mai pensato?”
“Sinceramente no e mi sembra assurdo… e allora la coscienza di esistere? Come pensi di concepire lo spirito senza un corpo? Non credo che sia facile separarli, credo che sia addirittura impossibile!”
“Guarda questo caffè. Osserva come le particelle d’acqua evaporano dalla superficie del liquido…”
“Niente di nuovo per la mia esperienza.”
“Ecco! La tua esperienza… se non ci fosse la materia stessa portatrice dell’intelletto, se non avessi un cervello, non sarebbe esistito neanche il mezzo attraverso il quale avere una coscienza delle cose. Ma l’acqua sarebbe comunque evaporata: come materia è sottomessa alle leggi dello Spirito, della Natura; non è lei che assoggetta.”
“Quindi vuoi dirmi che la materia è schiava dello Spirito?”
“Schiava…” – bevendo il caffè – “di un ordine imposto dalla Natura o creatrice essa stessa della sua condanna a non esser libera?”