Diversità

http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-lingua-e-un-bene-comune-curiamola-tutti/

La lingua è un bene comune e che in quanto bene comune: (i) appartiene a tutti, (ii) è soggetta a consumo (cosa che si dice poco, ma alla quale dobbiamo fare particolarmente attenzione in questo momento), (iii) può e deve essere curata da tutti. 

Ora, dire che i significati delle parole sono determinati dalla comunità significa dire che gli usi molteplici della lingua che si fanno in ogni istante all’interno di una comunità linguistica incidono in maniera fondamentale sull’evoluzione e più in generale sulla “salute” della lingua.

Le istituzioni (le accademie, la scuola) possono e devono guidare l’uso della lingua, ma non hanno il potere, da sole, di determinarne le sorti, a meno che non vogliano imporre un’irreggimentazione che può avere essa stessa – come argomenterò – conseguenze nefaste sulla vitalità della lingua.

Ora, è facile constatare che la larghissima parte dei parlanti di una lingua di cultura come l’italiano non sono messi in grado di capire un discorso formulato nel linguaggio tecnico-specialistico dell’economia, della politica, della filosofia o dell’informatica. La larghissima parte dei parlanti, anche quelli più colti, rinuncia a capire ancora prima di entrare nel dibattito. E gli specialisti, solo raramente, fanno lo sforzo di tradurre da una varietà all’altra d’italiano il contenuto dei loro discorsi.

La rivoluzione digitale ha introdotto nell’uso della lingua due novità che, se non governate, potrebbero comprometterne l’equilibrio naturale: la prima piuttosto evidente è lo sfruttamento intensivo che la lingua, e in particolare la lingua scritta, subisce; la seconda, più subdola, riguarda una meccanizzazione sotterranea dei processi sempre più diffusi di scrittura.

Si legge troppo, si scrive troppo – la lingua è sfruttata intensivamente

Siamo costantemente sui social network, sollecitati costantemente dallo scritto altrui e pronti costantemente a reagire per iscritto. I tempi di attenzione che riserviamo ai fenomeni di cui discutiamo sono diventati microscopici e la lettura dell’enorme corpus a cui siamo esposti ogni giorno si fa superficialmente.

Altrettanto superficialmente e rapidamente prendiamo posizione nei dibattiti sui social, senza pensare troppo a quello che scriviamo e soprattutto senza ponderare le parole, ma scegliendole, come è normale in una situazione d’uso estemporanea, tra un numero ristretto di parole immediatamente disponibili. Non ci rendiamo conto però che di quel nostro uso estemporaneo della lingua resterà una traccia scritta che andrà ad alimentare il corpus di letture dei nostri riceventi e quindi a farsi in qualche modo riferimento, se non norma, della lingua scritta.

Se pure non ci sono da temere scenari apocalittici come un’evoluzione verso quella “neo-lingua” paventata da Orwell in 1984, resta vero però che la meccanizzazione di una parte delle produzioni linguistiche sta già permettendo che s’infiltri nella lingua una tendenza entropica alla riduzione della diversità e quindi una sclerosi dei suoi fenomeni vitali.

Come parlanti, e soprattutto come scriventi, per esempio, abbiamo il dovere di usare e soprattutto di scrivere la lingua con parsimonia: usarla solo quando abbiamo davvero qualcosa da dire e non solo per far eco al rumore di sottofondo, usarla in maniera accurata, evitando la fretta nella produzione, prendendoci tutto il tempo che serve per scegliere parole perspicue ed eliminare parole inutili.

Insomma, se la lingua è un bene comune, abbiamo tutti due responsabilità: continuare a lottare come ci ha insegnato Tullio De Mauro, perché tutti i parlanti abbiano accesso a tutte le varietà del repertorio, e prenderci tutti cura della nostra lingua. La cura richiede tempo. Dobbiamo prenderci il tempo che serve a usare la lingua come si deve. Non c’è granché da delegare: sta a tutti noi, quotidianamente, mantenerla efficiente, potente, ricca, varia e viva. E studiare i modi per continuare a farlo.

Estatiche perversioni

Diversamente voli,
non verso montagne di carne,
morbide come un tappeto
di stelle.

Fermo
sul ciglio delle labbra,
immobile
sul ciglio del piacere.

Penetra e si perde?

Gioisce di lacrime,
ingabbiato in pareti
fatte di coito.

Incapace d’amare,
drogato di miele,
ricerca estasi in primordiali
penetrazioni.

Rapiscilo,
sotterralo,
distrailo.

Un solo bacio porta l’amore.
Un solo bacio cancella l’amore.

Zampa a zampa

Perù (2014)

«Subito all’inizio della Genesi è scritto che Dio creò l’uomo per affidargli il dominio sugli uccelli, i pesci e gli animali. Naturalmente la Genesi è stata redatta da un uomo, non da un cavallo. Non esiste alcuna certezza che Dio abbia affidato davvero all’uomo il dominio sulle altre creature. È invece più probabile che l’uomo si sia inventato Dio per santificare il dominio che egli ha usurpato sulla mucca e sul cavallo. Sì, il diritto di uccidere un cervo o una mucca è l’unica cosa sulla quale l’intera umanità sia fraternamente concorde, anche nel corso delle guerre più sanguinose». M. Kundera

«Non c’è nulla di più commovente delle mucche che giocano. Tereza le guarda con tenerezza e si ripete (quest’idea le ritorna irresistibilmente in mente già da due anni) che l’umanità sfrutta le mucche come il verme solitario sfrutta l’uomo: si è attaccata alle loro mammelle come una sanguisuga. L’uomo è un parassita della mucca; questa è probabilmente la definizione che un non-uomo darebbe dell’uomo nella sua zoologia». M. Kundera

Se non avessi letto queste parole nell’insostenibile leggerezza di Kundera, avrei sicuramente pensato che erano frutto di qualche ignoto autore animalista. E di questa vicenda, ossia il parlare di quanto sia profondamente ingiusto il rapporto uomo-animale (come se poi, l’uomo fosse altro dall’essere un animale), quello che più mi è rimasto impresso è il fatto che queste parole sono state lette da milioni di persone perché incastonate in un capolavoro letterario di ineguagliabile bellezza. Queste parole, al contrario di quelle che sono lette da chi ha a cuore già la causa animalista ed anti-specista, hanno toccato menti e generato pensieri, ragionamenti che difficilmente sarebbe stato possibile provocare. Anche qui si manifesta la genialità evocativa di Kundera: trattare di filosofia, di teologia, senza scomodare i costrutti e la sintassi spesso inaccessibili di queste materie. Queste parole ci risuonano nella testa, lavorano ed hanno lavorato nel nostro subconscio per darci un nostro noi migliore.

La Genesi, dove il dominio su uccelli, pesci ed animali è stato affidato da Dio agli uomini, è stata redatta da un uomo, non da un cavallo, dice Milan, che prosegue sostenendo con una chiarezza spiazzante che ammesso che Dio esista, non è detto che abbia affidato all’uomo il dominio sulle altre creature. Anzi forse questo è uno dei tanti pretesti dell’uomo per giustificare l’esistenza di Dio, che altro non è se non un contenitore del suo desiderio di dominio, di violenza; contenitore nel senso di cum tenere, reprimere e governare. In Kundera il dominio è santificato da Dio, inventato apposta dall’uomo per sottrarlo a tutte le altre creature. E la stoccata finale (tipica della schiettezza Kunderiana) arriva con l’affermazione che l’umanità è sempre stata fraternamente (le parole, dosate con una caparbietà incredibile) concorde sul diritto di uccidere le bestie, anche nel corso delle guerre più sanguinose. Dunque, anche di fronte a situazioni estreme come quelle in cui per interessi o ideali diversi l’uomo arriva a scannarsi reciprocamente, su una cosa andrà sempre d’accordo, sul fatto che sempre, per il solo fatto di essere uomo, si ha il diritto di uccidere un altro animale.

In Kundera non c’è soltanto un’analisi limpida di come il dominio si perpetri dall’uomo verso l’animale, ma anche di come lo sfruttamento sia istituito con le stesse modalità e con la stessa prepotenza ed arroganza. Qui l’autore si spinge oltre dicendo che l’umanità sfrutta le mucche come il verme solitario fa con l’uomo, generando un’immagine dell’umanità intera che è attaccata alle mammelle delle mucche. In questo caso è Tereza che fa questa analogia mentre guarda con tenerezza delle mucche che giocano. Ed infine, la parte che più mi ha toccato delle parole di Milan: L’uomo è un parassita della mucca; questa è probabilmente la definizione che un non-uomo darebbe dell’uomo nella sua zoologia. La logica è spiazzante. Questa scena, vista da un non-uomo senziente e di analoga intelligenza e capacità di classificazione, basterebbe a definire l’uomo come un parassita. In due frasi, di uno spessore, a mio avviso, raro, Kundera giustappone irrazionalità e religione con razionalità e scienza per smascherare violenza e sfruttamento che fanno parte della natura umana.

Ed è da qui che dobbiamo partire per migliorare, perché ognuno possa trovare il sé migliore di sé, prendendo coscienza dei timori per combattere i quali l’umanità tende a generare divinità, anche per giustificare il proprio desiderio di dominio. Soltanto attraverso un processo di conoscenza si può aspirare ad un’umanità migliore capace di creare meno divinità e più strumenti per affrontare le paure intrinseche dell’esistenza. Un’umanità più giusta, per qualunque essere vivente.

Auguri babbo!

Passeggiate nella Tuscia degli anni ’80

Chissà cosa avresti pensato e cosa mi avresti detto in questi giorni. È una cosa che mi domando spesso ultimamente, ma perché…
Magari il confronto con una realtà così paradossale e atipica rimette in moto l’essenziale e ci riporta all’origine della Natura e all’origine di ciò che importa davvero. Ho sempre sostenuto, papà, che gli abbracci sono la cosa più importante di tutte, che sono necessari e oggi l’impossibilità di praticarli li rende ancora più preziosi, e rari. Alla faccia del Governo che per preservare la specie ce lo impedisce, celebro gli abbracci. Sono tanti, fortunatamente, quelli che siamo riusciti a darci, ma pur sempre troppo pochi.

In questo giorno, speciale per diversi motivi, ti saluto e ti ringrazio per avermi donato la capacità di vedere l’importanza delle piccole cose; la chiamerei sensibilità, ma credo che andrebbe coniato un termine nuovo, neutro, per definirla. Questa sensibilità di cui parlo è proprio un abbraccio: per andare a fondo nelle cose, per prenderle e per sviscerarle, bisogna prima abbracciarle. Non si possono cogliere a distanza. E questo è il primo insegnamento che mi hai dato: non risparmiarti mai, abbraccia la vita e le sue sfide.

Oggi celebro il nostro legame genitore-figlio, in un contesto che ci impedisce di attuare il lato più umano di tutti, quello della presenza (dove nulla può o può veramente poco la tecnologia). E non ha colore politico questa presenza perché l’unico colore è quello umano e di fronte a questa comunione è difficile anteporre pensieri xenofobi. L’umano su cui puntavi sempre Tu. Tanti sono stati i discorsi che abbiamo fatto, io a difendere i diritti di ogni forma di vita, tu a dare la priorità all’uomo. Ci siamo anche scontrati e ancora ci scontreremo. Per questo hai fatto un ottimo lavoro di padre, perché nonostante le pandemie e nonostante la morte, sei più vivo che mai.

Se avete un padre, abbracciatelo forte. Fate lo stesso, anche se non ce l’avete più.

2 anni

Pensavo che averti perso fosse una di quelle cose che capitano una volta sola. Non è possibile perdere più di una volta una persona, o sbaglio? E invece l’esperienza mi dimostra proprio l’esatto contrario. Ogni istante potrebbe rivelarsi, in modo del tutto (apparentemente) casuale, foriero di ricordi agganciati a lui. A volte dei regali graditi, altre invece delle sorprese, altre ancora dei viaggi attraverso percorsi emotivi accidentati e malinconici.

Fortuna che il tempo non si ferma ma che procede e ha quel bel potere di rimescolare gli eventi così da modificarne addirittura il loro susseguirsi. Da Genova non ho mai fatto in tempo a poterti salutare per l’ultima volta. Sono arrivato troppo tardi. Quel viaggio in treno sarà il mio viaggio più insensato, quello che si è rubato pezzi di razionalità e li ha lanciati lontanissimo da me. Si è addirittura preso tutti i viaggi che avrei voluto fare successivamente e che, da due anni, non sono più riuscito a fare. Erano appena le 23 quando il treno stava per fermarsi a Termini, e, poco prima, una telefonata di mia madre annunciava il mio ritardo: “Babbo non ce l’ha fatta“.

Non ho mai visto una banchina così lunga a fianco del treno. Il pavimento freddo e i passi lenti, incerti. Le gambe cedono. Non scende ancora neanche una lacrima. Arriva F. correndo, le sussurro qualcosa e lei mi risponde: “Cosa? Cosaaa?“. Le cado addosso, mi abbandono con un abbraccio all’inevitabile. Sono arrivato tardi, anche solo per dirgli “buon viaggio“.

Eppure la Terra ha compiuto due giri interi attorno al Sole. Solo questo è successo. E tutto, dall’alto, è esattamente com’era prima; per questo il cuore deve vivere nell’infinitamente piccolo e la mente nell’infinitamente grande.

Pillola Viola [Club Torino]

Amantaní – Perù (2010)

L’unica differenza tra un capriccio e una passione eterna è che il capriccio dura un po’ più a lungo.

Oscar Wilde

Questa è una storia differente.
Intanto perché il tempo non sa cosa sia. Tutti gli eventi che narrerò hanno avuto, hanno e avranno luogo nello stesso momento. Così non dovrai sforzarti, lettore, di comprendere come gli eventi scritti sono legati tra di loro, e potrai concentrarti su te stesso (un lusso che non capita spesso di questi giorni).

Conosco un fanciullo.
Passa il tempo a correre attorno al giardino di casa sua. Dice che la notte è più bella quando c’è il sole. Dice che non sa distinguere il bene dal male, così per lui il giorno e la notte sono esattamente la stessa cosa. E corre attorno al giardino di casa. Pensa che per quante volte lo ha fatto, ha finito per scavare un fosso dove ora si rifugia; perché non riesce più ad uscire o perché non vuole? Quando piove è un bel guaio, si trova l’acqua fino al collo e riesce a malapena a respirare. Eppure dice che non è questo il suo problema. Vorrebbe sapere tutto, vorrebbe sapere il perché di ogni cosa. Per esempio non si ricorda di sua mamma, non si ricorda di suo papà e per fortuna gli altri bambini non gliene hanno mai parlato. In realtà nessuno gliene ha mai parlato, nemmeno i grandi! Dice di che lo sta leggendo sulle pagine di un libro che è ancora in corso di scrittura. Le pagine gliele lascia Yaldabaoth ogni sera quando scende dalla Luna. Non ho mai visto lettere di quel genere e non capisco di che lingua si tratti, ma non vedo perché dovrei dubitare di un bambino. Gli adulti fanno troppo spesso questo errore: non prendere sul serio i pargoli. Che poi è il motivo per cui scoppiano le guerre, per cui muoiono gli alberi e per cui si rompe il rispetto in mille pezzi. Il fanciullo mi cantilena una filastrocca che dice di aver appreso dalle lezioni di Yaldabaoth:

Dove vanno i pensieri, dove vanno?
I pensieri quelli buoni sono tanti
I grandi mentono, ma lo sanno!
Giro in tondo, tondo il giro
Gli anni son finiti tutti quanti
Ma quando li vedo alfin respiro!

Mi sento privo di forze quando sento la sua voce canticchiare questa canzoncina perché credo di aver capito cosa intende il suo amico che viene dalla Luna. Non parla di genitori, non ne accenna affatto. Eppure la malinconia che suda da quelle parole diventa la mia malinconia ed evapora, disperdendosi nell’aria e trasformandosi in insetti simili a farfalle dai colori pastello più brillanti che abbia mai visto. Non resta altro che avvicinarmi al tramonto (o dovrei dire all’alba?) per essere abbastanza vicino da toccarlo. Tiro fuori un paio di forbici e inizio a ritagliare un lembo di crepuscolo. Ne prendo un pezzo lunghissimo color porpora di Tiro. Appena lo poggio a terra, facendo attenzione a non rovinarlo, inizio ad arrotolarlo. Quando ho finito noto che il tessuto presenta delle venature scintillanti che sembrano quelle di un bruco esotico. Così fatto lo avvolgo a mo’ di sciarpa attorno al collo e mi avvicino al fosso dal quale si sente lo scalpiccio dei piedini del piccoletto. “Fermati!” – gli urlo dall’alto. “Spero di averne ritagliato un pezzo abbastanza lungo.” – penso. I passi si fanno più lenti e la corsa diventa un trotto leggero e infine un calmo incedere verso la mia voce. “Che occhi belli!” – penso quando riesco a scorgerli, di un verde incantevole come quello dell’avventurina. Tengo ben saldo in due mani il lembo di crepuscolo e sento che dall’altro lato proviene una lieve forza. Tiro verso di me e poi mi alzo in piedi recuperando il resto di tessuto ed ecco il suo fragile corpo che esce dal canaletto (pensare che è stato proprio lui a farlo così profondo!). Non dice una parola, ma con gli occhi mi racconta tutto, senza tempo. Comincio a svolgere il crepuscolo che ora ritorna il lenzuolo di tramonto che ricordavo. Ce lo avvolgo, dai suoi piedini, le gambe, il suo corpo fin su al collo. Gli occhi verdi continuano a fissarmi e appena avvolgo il resto della testa fino a coprirlo completamente i sensi scompaiono e mi lasciano come una parola priva del suo concetto.

Dove vanno i pensieri, dove vanno?
I pensieri quelli buoni sono tanti
I grandi mentono, ma lo sanno!
Giro in tondo, tondo il giro
Gli anni son finiti tutti quanti
Ma quando li vedo alfin respiro!

Conosco un ragazzo.
Dice di essersi fatto, strafatto e di aver abusato del suo corpo a più riprese. La sua fragilità lo spinge parecchie volte sul bordo. Ma nonostante tutto non cade, resta lì in contemplazione perché dice che sul limite si vede tutto meglio. Sul limite si può osservare meglio quello che c’è dentro, basta sporgersi. Accade così per ogni tipo di osservazione. Non condivido il modo di arrivare al bordo come fa lui. Non lo condivido o forse non ho le palle per arrivarci, ma di certo lo vedo come un mondo molto lontano dal mio e comprendo, allo stesso tempo, che questo mi preclude infinite possibilità. Questi suoi viaggi nell’inconscio, sono anche fisici: l’ho visto passeggiare nell’acqua di un lago alpino vestito, immergersi fino alla testa e rimanere lì per ore ed ore. Ha trovato un modo per parlare con i pesci (non credo che sia merito delle droghe) e questi lo sostengono nella sua lotta contro i bisogni, primo fra tutti quello di essere amato. Confida ai pesci le sue paure ed i suoi desideri, dice ai pesci che non vorrebbe lasciare la mano di D., ma è la sua debolezza a fargli mollare la presa. Così D. non c’è più e al suo posto arrivano sostanze chimiche (esclusivamente sintetizzate) a riempire i passaggi logici nel suo cervello. Eccolo di fronte al limite (il suo o Il limite?) a rimirare infiniti soli trasparenti mentre ascolta il canto dei pesci:

Sulla terra con due piedi
Quanti amori funesti
Dici amore, ma lo credi?
Suona la chitarra e l’arpa
Chiudi gli occhi e poi ti desti!
Lode a chi le ali ti tarpa!

Ora sento il desiderio di quel ragazzo, lo percepisco e lo capisco. Più che un desiderio sembra una voce che urla e chiede aiuto, vuole una casa e la cerca dove non c’è. Adesso dovrei sentirlo accanto a me in riva al lago, ma non lo vedo. Non c’è, non c’era, non c’è mai stato. Stavolta ha oltrepassato il bordo, come ogni altra volta? Sono convinto di non averlo mai conosciuto e allora mi tolgo le scarpe, poi le calze e nel freddo di una stagione qualsiasi parti sempre più piccole del mio corpo si specchiano nell’acqua. Mi avvicino anch’io al bordo e riesco a malapena a respirare. Tiro fuori le mie forbici e inizio a ritagliare il crepuscolo lì dove il cielo si accoppia con l’acqua e il colore è quello di una cattleya. Ne ricavo un lenzuolo rettangolare di grandi dimensioni e, cercando di non farlo bagnare, lo porto con me sulla riva. Lo stendo a terra e mi ci siedo sopra, le spalle rivolte verso il bosco, lo sguardo si perde nell’increspatura dell’acqua. Mentre sono intento ad osservare il vento sulle onde sento una presenza accanto a me. Conosco un ragazzo che mi ha insegnato un canto che gli hanno insegnato i pesci:

Sulla terra con due piedi
Quanti amori funesti
Dici amore, ma lo credi?
Suona la chitarra e l’arpa
Chiudi gli occhi e poi ti desti!
Lode a chi le ali ti tarpa!

Conosco un uomo che ancora non conosco.
Ci parlo quando il cielo si fa nuvoloso, perché così riesco a vederlo, altrimenti è praticamente impossibile o almeno non mi è mai capitato. Il motivo per il quale si fa vedere solo col cielo a quel modo non è perché sia spaventato dal sole o sia malinconico, ma, più semplicemente, perché con la forma delle nuvole ci si diverte ad inventare forme che poi dipinge su un taccuino. Si tratta di un semplice taccuino a righe e lui le trova utili invece che dannose per le sue illustrazioni perché sostiene che lo aiutino a ricordarsi come è fatto l’orizzonte. Glielo chiedo tutte le volte che lo incontro: “Aiutami a capire perché non riconosci l’orizzonte ed io ti aiuterò a capire come riconoscerlo!”. Inizia a parlarmi, con tono sommesso e calmo, dicendo che del tangibile conosce tutto ciò che non inganna. Rifletto sulle sue parole: potrebbe riferirsi alla possibilità di conoscere qualunque cosa ma al suo eliminare dalla sfera della conoscenza proprio l’orizzonte. Poi mi illumina con una frase: “La linea non esiste, approssima la parte di un cerchio. Perché dovrei dare importanza all’orizzonte se vuole ingannarci tutti?”. Ora è chiaro: quello che sembra evidente e palese non sempre lo è, anzi quasi mai. Per vedere che l’orizzonte non è una linea, dovrei volare in alto, sopra le nuvole e sperare che ci sia uno spiraglio per vedere come quella linea, in realtà è una curva. Una linea, una curva. La prima è solitudine, la seconda è vita. La linea è allontanarsi, all’infinito, senza mai incontrarsi. La curva, prima o poi, si incontrerà. Si allontana, mentre il cielo inizia a spegnersi intonando un sonetto.

Sola la linea che scappa
Simmetrica al dolore
Non si cura delle male parole
E la bocca dei maledicenti tappa
“Imperfetta la curva, mica è dritta!”
Sussurra la linea a tutto l’orizzonte
Ma gira gira gira e gira ancora, la curva
Si fregia di anestetiche misure fin su al monte
Sei tu la mia serva,
sono io il tuo ponte

Mentre guardo le sue inedite parole, lui non c’è più e, a dire il vero, non ci sono più nemmeno io. D’improvviso raccolgo i pensieri in una scatola che sento ma non vedo e mi metto a correre verso l’orizzonte, quel farabutto. Devo arrivare prima che sia troppo tardi anche se non è presto e non è tardi per nulla. Di fronte al tramonto ritrovo la mia forma e la mia stessa malinconica sostanza. Estraggo le forbici dalla tasca e mi metto a ritagliare il crepuscolo lì dove è di color pervinca. Ne ricavo un lenzuolo abbastanza grande da contenere il corpo di quell’uomo e mi lascio alle spalle il tramonto, mettendomi in marcia verso casa. Ogni passo mi porta lontano dagli occhi, avvicinandomi all’uscio della consapevolezza. L’uomo è proprio lì che mi aspetta, seduto. Non dico una parola, mi metto una mano sulla spalla e lo avvolgo col lenzuolo che ho estratto dal cielo. D’improvviso odo la sua voce bisbigliare parole che non capisco, che diventano parole sempre più giovani, così come la sua voce che diventa la voce di un ragazzo. Il lenzuolo si alza, mi accarezza una spalla; sento nuove sensazioni come se fosse la prima volta che provo sulla pelle il tocco di qualcosa, provo a parlare, ma escono solo parole prive di significato, parole semplici, efficaci, genuine, autentiche e fatte da poche sillabe. Scompare l’uomo, scompare il ragazzo, il bambino non c’è più e sono io, sono tutto.

Ma gira gira gira e gira ancora, la curva
Si fregia di anestetiche misure fin su al monte
Sei tu la mia serva,
sono io il tuo ponte

Angoli di mare

Nascosta in qualche angolo di questo mare c’è la nostra isola più bella e mai trovata.

Renzo Romanelli
Viterbo (1984)

Tante volte ho scritto di te, in silenzio. Tante di quelle volte che il conto si perde nel ritmo del tempo dei battiti del cuore che mi hai regalato. Ho scritto di te e l’ho fatto per me, per te, pure se tante di queste cose non le ho mai state scritte, ma le ho soltanto sentite nella carne.

Ma quanto tempo ci è voluto per rileggere quelle tue parole senza versare una lacrima? Quasi due anni e ancora ho il terrore di riprendere in mano la foto che ti riporta a Giannutri, col tuo sorriso magico capace di colmare, anche adesso, il senso di realtà che mi hai dato. Perché non è un vuoto doloroso quello che sento (prima, sì, lo confondevo col vuoto, sbagliando) ma ora lo riconosco. Mi hai messo alla luce di nuovo, distruggendo il mio piccolo mondo e aprendomi la via dell’unico sentire possibile; e nel farlo mi hai lasciato disperato perché in quel momento non avevo visto tutto ciò che mi avevi donato. Hai scritto su ogni singolo consiglio, su ogni singola frase d’amore, su ogni risposta ad una mia domanda la chiave di lettura per procedere con forza, coraggio, dignità e serenità. Ed io, cretino, che pensavo di essere stato abbandonato, ho capito che mai nella vita avevo avuto l’occasione di essere così vicino a te.

Ti ricordo. Stavolta lo faccio sul riflesso del mio parlare di te agli altri. E, infine, col parlare di te a me stesso.

Tra un po’ per te sarà come se lui non fosse mai esistito – Una frase lacerante. L’ho ricevuta come una stilettata nel petto, da uno dei miei migliori amici che nella compassione del dolore mi ha portato il primo pezzo di realtà di cui avevo bisogno. Era un altro regalo e al momento l’ho vissuto con sofferenza; ora posso dire che non è in altro modo se non così. È davvero come se tu non fossi mai esistito. Ma questo non provoca dolore, anzi mi riporta sul piano della realtà, dove tu volevi che fossi, quando sono nato. Ci sono io adesso. È questo che Claudio voleva dirmi, senza aggiungere di chi fossi figlio, perché dava per scontato che io in quel momento di struggimento me lo ricordassi.

Però mi sento bene, pieno di energia, tutto sommato… – Ero appena entrato al pub per incontrare alcuni amici e ho di nuovo incontrato te, papà. Stavolta nel dolore di due fratelli che con gli occhi lucidi, tristi ma vivi, ti ho rivisto, rivissuto, sentito di nuovo. Gli occhi di Simone hanno visto quello che a un figlio dovrebbe essere proibito e il suo braccio, ora, ne paga le conseguenze. Non per molto, perché poi si dovrà tornare ad arrampicare, insieme. Gli occhi di Andrea esprimono un perpetuo dolore e una ricerca di riconoscere umani, non persone, accanto a lui. La sua anima, la loro anima, cerca abbracci. Cerca freneticamente la presenza, antitesi del vuoto provocato dalla perdita. Eppure entrambi mi hanno trasmesso qualcosa: entrambi sono felici di aver avuto un padre come il loro. E non è scontato per niente. Così ti ricordo nell’abbraccio a due amici, papà.

Tra poco ti avrò perso che ormai sono 2 anni. Ho preso il coraggio di entrare nel tuo studio, nel tuo ufficio, nel tuo mondo. Ho promesso a me stesso che mi sarei perdonato nel momento in cui avrei irrotto nella tua intimità giurandomi che non avrei giudicato nulla. Eri andato in pensione da poco, anche se in realtà non ci sei mai andato perché fino all’ultimo eri immerso nel tuo lavoro, parte di casa tua. Ma ho trovato altro di te, disegni, immagini, fotografie. Ho trovato le bozze, scritte sia a mano che con una Olivetti, del tuo libro sulle necropoli etrusche. Ho trovato le foto che avevi fatto con la tua Nikon per documentare e riportare sul libro le tue scoperte e deduzioni. Ho trovato degli appunti dove calcolavi le distanze di corpi celesti (alcuni pianeti del sistema solare) e che per la loro complessità e per il mio stato d’animo, non sono stato in grado ancora di decifrare. C’erano i quadri che stavi tenendo d’occhio perché ti piacevano, e coi quali avresti abbellito il salone di casa. C’erano altri quadri, quelli che già avevi comprato, che univano geometrie astratte al gusto estetico classico. C’erano ancora quadri, fatti da te, stavolta. E un’infinità di lavori che ti avevano fatto penare, sognare e ti avevano riempito di soddisfazione. I tuoi disegni, qualche nudo, lo studio di corpi. Appunti di teoria della vela. E infine i tuoi scritti, un paio di racconti (di cui un romanzo ispirato al periodo in cui i francesi avevano fatto “visita” dalle parti di Tolfa). E tra quelle tue parole, dosate con parsimonia, con decisione e con quei tuoi modi che ricordo con affetto, alcune hanno trovato me illuminando il mio cammino della luce più autentica che abbia mai potuto provare sulla pelle: nascosta in qualche angolo di questo mare c’è la nostra isola più bella e mai trovata.

E ora sì, mi manchi incommensurabilmente e allora una lacrima me la concedo.

H.O.M.E.

Don’t think. It complicates things. Just feel, and if it feels like home, then follow its path.

Robert M. Drake
Val di Susa – Italia (2008)

Quante volte mi sono chiesto: cos’è casa? Quante volte te lo sei chiesto? A volte ritorno sulle orme che avevo calpestato un tempo remoto a piacere. Dovrei trovare confortevole la sensazione di esistere nel mio luogo ma in un tempo diverso. Ma è proprio lì che mi perdo, perché è il posto sbagliato dove cercare.
Non bisogna pensare (dannazione alla mente logica e ingegneristica!): è questo il consiglio per la felicità. Il pensiero imbriglia la creatività, imbavaglia la bocca del sentire attivo; in altre parole, assoggetta la libertà del sentimento a degli schemi mentali predefiniti e finiti, rende la tendenza all’infinito una becera autoreferenziale necessità di affermarsi. E non è l’affermarsi ciò che porta a se stessi, ma il fermarsi. Perché fermarsi non è assenza di movimento. Fermarsi è interrompere il flusso del ragionamento a favore del dinamismo del sentire.

Finché c’è movimento, non v’è possibilità di sentire. E questo penso sia una delle chiavi per le quali la nostra socialità 2.0, se abusata, ci rende vuoti e sposta la nostra consapevolezza verso l’inconsapevolezza e la sterilità dell’animo. Si può pensare a una canzone senza le pause? Le pause servono a far penetrare nel profondo il contenuto melodico della composizione musicale. Senza le pause, non esisterebbe musica, ma soltanto rumore. E così accade per il rapporto umano (di qualunque genere): senza il giusto tempo per lasciar decantare i sentimenti, si avrebbe un continuo movimento, uno scorrere di eventi, che generano picchi estremi di passione (un innamoramento latente) destinati a morire, spazzati via dalla prossima passione, e così via…

Che c’entra dunque la casa in tutto questo? La casa è il luogo dove l’unico movimento possibile è quello che alimenta l’isopassione: e questo unico movimento è l’arcobaleno del sentire. Isopassione è sinonimo di Amore. In questo caso mi viene in aiuto proprio la logica e l’analisi per descrivere questo stadio dell’animo (uno dei molteplici, ma quello al quale il cuore coraggioso tende): l’Amore è quello stadio in cui azione e passione si incontrano e danzano allo stesso ritmo, in equilibrio. Diversamente accade per l’innamoramento, dove la passione balla da sola e decide i movimenti da far compiere all’animo. Dunque Amore è il luogo dove la passione è stabile, in equilibrio. Amore è il luogo dove si può iniziare a costruire, ad edificare.

Ho avuto brillanti esempi d’Amore, dalle parti del mio animo. Per questo a volte cado nella tentazione di tornare su quei passi. Ma quando mi giro, mi accorgo di essere su un sentiero diverso, quello che ho scoperto io. La mia Casa.

Superlative (in)certezze

Spitzkoppe – Namibia (2017)

Quante sono le volte che si alzano gli occhi al cielo?
E quante di quelle volte capita che ci sia la luna, lì, fissa a guardarti?
Ecco. Bisognerebbe dimenticare come si fa a contare, nella vita, per contare. Perché troppo spesso mi viene da contare le volte che accadono le stagioni, che tramontano i tramonti e che albeggiano le albe. E più sono speciali gli eventi che caratterizzano questa danza dei numeri e più la cardinalità si assottiglia.

Perché un tramonto lo si può vedere e apprezzare tante volte, ma il saper contare, ci pone un vincolo, un limite, che sinceramente non vorremmo; perché come esseri umani siamo figli dell’infinito, anche se non siamo in grado di coglierlo, e come tali non possiamo andar d’accordo col contare. Eppure inventiamo le religioni per questa nostra smania di contare, inventiamo idee politiche e leggi, per questa nostra necessità. Ma difficilmente arriviamo a fluire nell’infinito, a scorrere nella sua trama, invece che a tesserci sopra una trama inadatta fatta di numeri.

Il mondo è tutto ciò che accade.
E nient’altro che questo.

Anatomia della melancolia

Nord di Pechino – Cina (2010)

Mi domando di che colore sia la malinconia. C’entra il fatto che possa esser chiamata melancolia (o melanconia, o ancora maninconia)? Perché se la chiamo melancolia mi verrebbe da dire che potrebbe assumere il colore verde, giallo oppure rosso; ma in che periodo dell’anno si colgono le mele? Da luglio a novembre, pare, dipende dalle qualità. Mi piace legare qualità di forma, di lessico, a parti di parole che (apparentemente) sembrano slegate. Il mito e la fantasia umana si iniettano nella lingua parlata da quando esiste la lingua stessa, non vedo perché allora la melancolia non dovrebbe entrarci nulla con le mele. Poi, d’accordo, c’è tutto un altro pezzo di storia etimologica vicino a quella mela (kholḗ è la bile, se proprio vogliamo essere vicini alla traduzione letterale). Ma vorrei che la mela c’entrasse qualcosa in tutto questo.

A pensarci la mela è il frutto più malinconico che conosco.
Potrei riflettere su una pera, ma non su un’arancia. Men che mai su un kiwi, su un melone o su un’anguria. Un mango? Non scherziamo.
Non è figlia di frutti tropicali, la melancolia. La mela in effetti è presente nelle terre dalle tradizioni che possono insegnare questo sentimento. Ché la melancolia non è figlia di stati d’animo semplici.
Chissà se la mela ce l’hanno messa volontariamente dentro. E perché poi hanno preso la mela-nconia e l’hanno trasformata in mali-nconia?
Le parole sono importanti.
Qualcuno deve averlo pur fatto. Oppure lo stesso animo umano l’ha fatto. Una volta per renderla un’emozione non deprecabile, l’altra per darle l’accezione originaria che i greci le avevano attribuito (bile nera).

μελαγχολία.
E pensare che quello che per un greco era il nero (μέλας), per noi è il colore più distante possibile da qualunque mela mai vista o pensata.